Giulio Pirovano               Uniti nella diversità L’Europa sulla scena del mondo               1

lezione 1

 

 

Uniti nella diversità.

È il motto che l’Unione Europea ha scelto per esprimere la propria complessità rimarcando tuttavia una volontà di unità. Volontà di unità non significa dire che l’Europa è una unione di popoli, significa auspicare che lo diventi.

Se si ripercorre la storia di questo nostro continente constatiamo una serie di fenomeni culturali che nascendo in luoghi diversi sono destinati poi a diventare patrimonio di tutta l’Europa.

Il Romanico, il Gotico, il Barocco sono i primi esempi che possono venire in mente, ma se facciamo mente locale possiamo trovare diversi altri esempi.

Durante il secolo XIX, l’Ottocento, nei diversi paesi europei si sono sviluppate correnti di pensiero che esaltavano l’appartenenza ad un popolo, è la stagione dei nazionalismi. Allora questi esaltavano l’idea di un popolo con un proprio territorio, la terra dei padri, con una propria lingua e una propria legislazione. In Germania e in Italia, paesi fortemente frazionati politicamente, questa idea assume un significato particolarmente intenso alle menti delle élite acculturate.

Nel Novecento si assiste ad un cambiamento profondo: i nazionalismi patriottici tendono ad assumere miti che hanno a che fare con l’affermazione della potenza del proprio popolo.

Questa idea di potenza da dove nasce?

Alla fine dell’Ottocento si determinano cambiamenti indotti dalla seconda rivoluzione industriale: nel 1881 a Milano in via Santa Redegonda, per iniziativa di un comitato privato, viene costruita la prima centrale elettrica a sistema Edison, la prima in Europa.

Negli anni successivi abbiamo il fiorire in tutta Europa di iniziative simili: se alla fine del Settecento Volta apriva delle prospettive straordinarie alla scienza, alla fine dell’Ottocento Edison offre prospettive straordinarie all’industria.

L’immagine della prima automobile Fiat è una icona del cambiamento indotto dalla seconda delle grandi innovazioni tecniche: il motore a combustione interna.

Quando le prime automobili compaiono la rete stradale in Europa è costituita da strade bianche mentre nelle città troviamo strade e piazze lastricate. I collegamenti sulle lunghe distanze sono assicurati dalla rete ferroviaria sviluppata intorno alla metà dell’Ottocento e basata sull’uso delle locomotive a vapore, mentre i trasporti a breve e media distanza sono sempre assicurati da carrozze a cavalli e carri comunque a trazione animale.

Le automobili e i carri a motore sono strumenti destinati a cambiare il paesaggio urbano, e non solo. Per noi un viaggio in auto per andare in Liguria è un’esperienza banale: nel 1920 era qualcosa che facilmente si poteva trasformare in avventura.

La seconda rivoluzione industriale è certamente una delle chiavi per capire quello che è accaduto all’inizio del Novecento, ma da sola non è sufficiente per cogliere tutta la complessità del periodo, in particolare se assumiamo un punto di vista politico e culturale.

Un altro aspetto della complessità è poi costituito dal modo di intendere le relazioni tra i vari paesi.

 

In questa prima lezione facciamo riferimento ad alcuni termini che possono essere esplicativi di quanto caratterizza la storia di questo primo scorcio di secolo XX.


1900-1919


Ma dobbiamo fare una premessa (ciclo organico). È una vicenda ciclica che vede costantemente in scena alcuni attori: l'economia, la politica, la società, la famiglia. Ma se volete potete benissimo iniziare dalla famiglia. Questo va detto anche se qui non ci occuperemo direttamente della realtà della famiglia ai primi del Novecento o al giorno d'oggi.


La seconda rivoluzione industriale è rappresentata ai nostri occhi da un cantiere: si sta costruendo una fabbrica. L’immagine scelta è del 1906 e illustra la fondazione di una parte della Dalmine, posta in una frazioncina insignificante: la società tedesca Wasserman aveva deciso di investire in quell’area e gli stabilimenti per la produzione di ferro e acciaio e i relativi manufatti di base sono destinati a trasformare gradualmente tutta la realtà sociale, economica e politica della zona.

Ho scelto il caso Dalmine per esprimere anche il fatto che il capitalismo che cresce è un capitalismo europeo per vocazione e per realtà. è una società tedesca, non italiana. Non si tratta di una iniziativa di campanile. La Dalmine è destinata a diventare italiana solo nel 1917, durante la prima guerra mondiale, quando la Germania guglielmina era ormai vissuta come un nemico anche in Italia.  Ma il caso Dalmine ci insegna molte altre cose che non possiamo ignorare. L'immagine della ghianda che, semisepolta nella terra, sta germinando, serve a farci riflettere sul fatto che i cambiamenti sono generati dal basso e non dai vertici della realtà politica e sociale. Poi ci sono delle regole intrinseche. L'azienda non può nascere e nemmeno vivere senza chiedere la collaborazione di molti individui, l'azienda non può vivere se produce per se stessa o per il paese in cui si trova, l'azienda deve costruirsi di continuo, secondo regole che non sono dettate dalla natura ma da se stessa, dal bisogno del mercato e realizzate attraverso la tecnica. Queste regole contengono tre logiche d'azione: necessità di collaborazione, necessità di lavorare per gli altri, necessità di sviluppo continuo.

 

Nazionalismi: ho già detto della stagione dei nazionalismi. Ma ora vediamo alcune immagini che ci servono per capire meglio: il re Umberto I è rappresentato in divisa da ussaro, una divisa d’onore. Anche se l’immagine è in bianco e nero potete osservare la ricchezza delle decorazioni. La divisa segnala la grandezza dell’uomo. Una scena in cui troviamo figure sempre in divisa, e che divise, è quella accanto in cui si documenta la visita di Guglielmo II, imperatore di Germania, al re d’Italia Umberto I, a Napoli qualche anno prima dell’attentato che nel 1900 metterà fine alla vicenda terrena di Umberto I. è evidente che abbiamo a che fare con un gruppo di privilegiati che fa riferimento a un codice che dovrebbe ancora essere basato sull’onore e che vive in una dimensione che nulla ha da spartire con il popolo (e dico popolo per dire che si tratta della stessa situazione nei vari paesi europei, non è una questione di nazioni). Arriviamo poi all’ Italia non conosce che la via dell’onore! Una cartolina di propaganda nazionalista che esalta il fante italiano: il soldato brandisce la baionetta e regge un’asta su cui sventola la bandiera della monarchia italiana. L’espressione dell’uomo è altèra: propaganda, appunto. Ma una propaganda efficace che ha séguito in una parte della popolazione che manifesta in molte occasioni il proprio entusiasmo per l’idea di vivere in un Paese pronto a grandi avventure. E la grande avventura è li che si affaccia con una immagine che ci porta alla guerra di Libia dove i fanti difendono il proprio accampamento riparandosi dietro un baluardo di terra. È il 1911-12. Il Giolitti ne avrebbe fatto volentieri a meno, ma era necessario sostenere una politica coloniale, almeno così pensavano i fautori della grande Italia.

L’ultima immagine di questo quadro si riferisce sempre alla guerra di Libia, ma vediamo il rientro in Italia di un gruppo di reduci: povera gente.

 

Destabilizzazione: La politica europea prima dell’avvento al trono di Guglielmo II (1888) era stata dominata dal cancelliere tedesco Bismark (già nel 1862 primo ministro del regno Prussiano, nominato dal padre di Guglielmo II, Guglielmo I): l’obiettivo del Bismark era quello di costruire in Europa sì una posizione dominante della Germania, ma nel contesto di un generale equilibrio tra le potenze europee. L’avvento al trono di Guglielmo porta alla rottura dell’equilibrio: Guglielmo ha una personalità complessa, è irruente e non è disposto ad ammettere che sia altri a fare la politica del suo Stato. Il Bismark infatti dopo poco fece fagotto e lasciò il suo incarico. Guglielmo lanciò la Germania in una avventura industriale che fece perno sulla costruzione di una grande flotta sia civile sia militare che doveva fare concorrenza agli inglesi in tutti i mari del mondo, una avventura industriale che fece perno anche su un incremento assai notevole del riarmo dell’esercito con mezzi moderni. L’immagine che vediamo illustra questi due aspetti della politica industriale dell’imperatore tedesco. La Krupp costruisce i cannoni e l’esercito deve pensare a come utilizzare le armi di cui viene dotato. È in questi anni di grande sviluppo industriale che si fa strada tra gli stati maggiori tedeschi una idea mai più abbandonata: guerra lampo. Il modello della Germania guglielmina è costituito dalla volontà del giovane imperatore di essere il più forte mentre si nasconde la scissura tra la società privilegiata dell'onore e la società della sopravvivenza (la massa dei poveri). Tutto il lavoro dell'industria viene piegato a quella logica.

 

Imperialismo: è un termine abusato nel linguaggio degli storici “di sinistra” ma rispecchia un dato di fatto che si compie nei primi anni del Novecento. La completa europeizzazione del mondo, sia in modo diretto, sia in modo indiretto. La prima cartina è dell’Africa e ci fa vedere la suddivisione dei territori africani fra i vari Stati europei. Belgio, Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia, Portogallo e Spagna sono i protagonisti di questa realtà della colonizzazione dell’Africa iniziata negli anni settanta dell’Ottocento. In Africa i paesi europei controllano territori ben più grandi della loro estensione in Europa e fondano il loro progressivo controllo non solo sulla potenza di fuoco delle mitragliatrici, ma sulla collaborazione dei capi locali che così giungono a modificare profondamente il loro status nei confronti della popolazione di cui erano inizialmente espressione. L’Africa francese ad esempio risulta essere amministrata da circa trecento funzionari francesi che usano il potere dei capi locali avviando quella perversa realtà africana ancor oggi al centro dei problemi di quel continente: la corruzione dei funzionari pubblici di ogni grado e funzione. L’imperialismo europeo tuttavia non è presente solo in Africa: la seconda cartina è una cartina circolare che ci fa vedere con un colpo d’occhio la situazione del pianeta ai primi del Novecento: solo il Giappone risulta essere indipendente dal controllo diretto o indiretto delle potenze d’Europa. Ma il Giappone aveva pagato un prezzo alto nel dare il via alla sua rapida trasformazione, negli ultimi due decenni dell’Ottocento: aveva importato i migliori modelli organizzativi e industriali europei trasformandosi in un paese ad alta industrializzazione nel giro di trentanni, una generazione.

La superiorità europea è totale. 

La mappa concettuale evidenzia il ciclo che ne rappresenta la logica. Ma qualcosa stava succedendo a sud. Gandhi in Sud Africa di fronte a nuove leggi che limitavano di molto la libertà degli asiatici si fece promotore di un movimento di protesta che alla lunga riuscì ad ottenere la revisione di quelle leggi: l'esperienza dimostrava al mondo che era possibile agire secondo una logica (azione non violenta nel segno della verità) diversa da quella usata dai colonizzatori europei (azione di forza nel segno del dominio). Essendo il mondo dell'imperialismo unificato dalla logica del più forte, lo stesso mondo scivola senza consapevolezza verso la guerra. Oggi il termine imperialismo è riferito in particolare agli Stati Uniti d’America. Nel mondo della rete web sono assai numerosi i siti sudamericani in lingua creola che accusano gli USA di imperialismo. (E questo imperialismo ha spinto gli USA verso la guerra secondo modalità ridondanti rispetto agli attacchi subiti).

 

Guerra: Guardiamo il territorio europeo. I rilievi naturali, le catene montuose degne di rilievo sono i Pirenei, le Alpi, i nostri Appennini, i monti dell’Epiro, i rilievi presenti nell’area dei Sudeti e i Carpazi, poi ci sono, a est le grandi pianure della taiga. Dobbiamo fissare con attenzione questi spazi in cui le vie d’acqua, i grandi fiumi navigabili, costituiscono, con i loro bacini le naturali vie di scambio tra le diverse popolazioni, ma anche, con la loro portata, una naturale bariera, mentre i rilievi svolgono la funzione forse di dividere più che di unire, ma solo fino ad un certo punto (le eccezioni sono infatti numerose).

Una cartina del 1911 ci mostra la realtà politica dell’Europa appena prima della Grande Guerra (quasi che la Seconda non sia stata ancora più grande). È l’Europa della Triplice Alleanza voluta dal Bismark e fatta inceppare dalla politica di Guglielmo II. Impero tedesco (proclamato nel 1873) e Impero Asburgico sono complementari, e l’Italia cerca con cautela qualche vantaggio strategico pensando a possibili sviluppi coloniali che al massimo potevano forse impensierire la Francia e la Gran Bretagna, certamente non la grande Germania né l’Impero Austroungarico, eccezione nel quadro dell’imperialismo europeo, eccezione perché interessato solo ad una espansione verso il mar Egeo, verso i Balcani e le province della Grecia a spese degli Stati Balcanici di recente costituzione e degli Ottomani. Quando l’assassinio del secondo erede al trono austroungarico (il primo, Rodolfo d’Asburgo, a Mayerling, venne probabilmente suicidato il 28 gennaio 1889) Francesco Ferdinando d’Asburgo, quando il suo assassinio accese la miccia per la deflagrazione del conflitto il 9 luglio 1914, si realizzò una condizione che tutti avevano ignorato. Nel giro di pochi mesi vediamo il costituirsi di una alleanza degli imperi centrali con l’impero Ottomano, mentre Gran Bretagna, Francia, Russia e Italia costituiscono l’alleanza opposta. Cinque anni di guerra, quattro per l’Italia. Diciamo qui solo che la guerra è distruzione: della natura, degli uomini, delle città.

Nel 1918 l’Europa è segnata da una fascia di territorio che va dal mare del Nord all’Adriatico, in cui la distruzione è il comun denominatore. Dai 100 chilometri di larghezza ai 30. Oltre due milioni di sfollati, sette di prigionieri e dispersi. Oltre i milioni di morti (8), oltre i feriti (21 m.) e i mutilati. 

Ma la guerra in extrema ratio sembra giustificata dal sistema della rivoluzione industriale: è necessario ricostruire ciò che è andato distrutto. E magari dare anche un maggiore benessere alla gente. Si costituisce cioè un ciclo: dominio del più forte, distruzione, ricostruzione, sviluppo continuo e quindi ancora dominio del più forte.

 

Rivoluzione: in Russia alla fine del 1917 ormai la situazione è insostenibile, è la fame per milioni di persone. Agli inizi del 1918 scatta una seconda rivoluzione (la prima c’era stata nel 1905) che vede i socialdemocratici essere responsabili del governo, a ottobre invece è la rivoluzione. Bolscevica. Lenin era stato il capo che aveva intuito la necessità di sganciare la Russia dal conflitto mondiale a qualsiasi costo e che, per questo, viene aiutato dal governo tedesco che gli permette in treno di attraversare il proprio territorio per tornare a Mosca dopo l’esilio svizzero. Lenin è determinato a conquistare il potere. Con le armi, anche se la carica del Palazzo d’Inverno a San Pietroburgo dicono che sia stata senza vittime. La rivoluzione bolscevica è stata guerra: guerra contro i populisti, guerra contro i bianchi, guerra contro gli occidentali che aiutavano i bianchi, guerra contro tutti coloro che la pensavano diversamente dai bolscevichi. Lenin era il portatore della verità. Assoluta.

Le immagini ci presentano ancora una volta i diversi aspetti della propaganda e la realtà della gente: l’ultima in basso a destra è una foto scattata nel 1918 a San Pietroburgo. Ancora una volta sono protagonisti uomini chini sotto il peso di sacchi che portano sulle spalle. È questa l’umanità che subisce o è l’umanità che fa la storia? Può sembrare, e probabilmente lo è, una domanda retorica. La rivoluzione bolscevica non finisce nel 1918: finirà tra il 1921 e il 1922  con strascichi ancora più tardi.

 

USA: L’Alleanza occidentale non avrebbe vinto la guerra se non avesse avuto l’appoggio degli USA. Prima di tutto sul piano finanziario. Le cartoline del 1918 che vediamo qui ci illustrano diversi aspetti.

Distruggi questo pazzo bruto, arruolati nell’esercito.

Soldato tedesco o Casa? Compra più bonds della libertà.

Sicuro! noi finiremo il lavoro. Prestito della vittoria, della libertà.

E la icona di questa cartolina è un simpatico lavoratore ottimista. Lo sfondo è una strada di St. Louis, una strada ampia con belle case, o un ponte in ferro che ci parla di tecnologia e industria. Tecnologia e industria presenti anche in Europa (basta pensare alla icona della Tour Eiffel a Parigi) ma che qui si avvalgono di spazi impensabili nella vecchia Europa. Gli USA furono determinanti con il loro intervento. Prima che i soldati USA arrivassero in Europa, durante la fase della loro presenza sul fronte europeo, dopo la fine del conflitto.

 

Pace: Versailles, Francia, a cavallo tra il 1918 e il 1919. Fine del 1919. I rappresentanti di USA, Gran Bretagna e Francia (Wilson, Lloyd George, Clemenceau) decidono come trattare la Germania e cosa fare di quello che resta dell’Impero Asburgico. L’Italia, illusa con il patto di Londra e delusa dalla Versailles americana, sulle gambe del ministro degli esteri Sonnino e del primo ministro Orlando lasciò i lavori raccogliendo solo le briciole che i partecipanti al mercato avevano deciso di lasciarle. La definizione “mercato dei popoli d’Europa” che possiamo leggere su una stampa dell’epoca esprime tutto il risentimento per gli esiti dei trattati dal punto di vista degli italiani nazionalisti. Le immagini dell’epoca ci restituiscono però una visione diversa. Alle trattative hanno partecipato folte delegazioni (52 comitati), come succede ogni volta che al centro delle discussioni ci sono problemi complessi. È stata questa ampia discussione svoltasi su tavoli diversi che ha portato alle diverse decisioni che poi determineranno il destino del mondo per i successivi vent’anni. In Germania si svolsero intense manifestazioni, organizzate ad esempio dalla Unione nazionale dei giovani tedeschi, contro i dispositivi previsti dai trattati: i cartelli sono stampati, tutti uguali, esprimono organizzazione, non inventiva personale. Sulle pagine di un giornale illustrato di Nuova York osserviamo la scena finale della firma del trattato di pace che mise la parola fine alla prima guerra mondiale. Era il 28 giugno 1919.

 

Debiti: gli USA sono in campo: prima come finanziatori di Francia Gran Bretagna e Italia, Francia Gran Bretagna e Italia sono debitori netti nei confronti degli USA. Poi come finanziatori della Germania di Weimar impegnata a pagare le riparazioni di guerra in particolare alla Francia, ma anche agli altri paesi vincitori. Francia Gran Bretagna e Italia fanno sapere agli USA che pagheranno i loro debiti solo se la Germania pagherà le riparazioni. Per far rifunzionare la Germania ci vogliono i soldi americani. Ed è così che l’Europa riprende a vivere in un contesto finanziario stremato dal conflitto. È un circolo vizioso come diventerà evidente 10 anni dopo.

 

Lavoro: Ho scelto per fissare i concetti relativi al tema del lavoro in Europa dopo la fine della prima guerra mondiale una cartolina di propaganda stampata nella Russia bolscevica e ormai sovietica. È un documento del 1919 che rappresenta il lavoro di un carpentiere davanti a cui campeggia un fucile con innestata la baionetta, si va alla carica all’arma bianca. Evoca le tensioni che attraversano tutta l’Europa, dalla Gran Bretagna all’Italia passando da Germania e Francia: biennio rosso (in Italia dal 1919 al 1920 – in Europa prima). Rosso non solo per il sangue, ma soprattutto per l’ideologia che viene evocata simbolicamente dalle bandiere rosse, rosse, comunque, come il sangue degli uomini, che siano lavoratori o che siano soldati. A questa immagine se ne possono contrapporre altre a cui ho fatto riferimento presentandovi nell’indice alcuni dei protagonisti e tra questi Mussolini: nel 1919, il 23 marzo, egli fondò i fasci italiani di combattimento a Milano, in piazza San Sepolcro.